La sfida delle migrazioni 2.0
di Paolo Naso

Il dato complessivo delle migrazioni in Italia si pone di fronte a una interessante novità. Diminuiscono infatti gli immigrati “tradizionali” e aumentano a ritmo elevato quelli che potremmo definire “2.0”.
Intendiamo dire che sembra ormai assestata e consolidata un’ondata migratoria sviluppatasi secondo il classico paradigma dei push e dei pull factors: delle spinte all’emigrazione da paesi a economia bloccata o addirittura declinante da una parte, e di quelle all’immigrazione verso aree in grado di offrire opportunità di lavoro e di crescita sociale dall’altra. Il meccanismo di incontro tra domanda e offerta di lavoro è stato alla base dei grandi processi migratori che sono arrivati a incidere sulla demografia di paesi come gli USA, il Canada, il Regno Unito e vari altri divenuti sempre più marcatamente multietnici, multiculturali e multireligiosi.
Come noto, l’Italia ha vissuto questo processo che potremmo definire “classico” in tempi recenti e concentrati arrivando, in un ventennio, a contare una quota di immigrati pari a circa l’8% della popolazione totale, posizionandosi così nella fascia europea a più alta concentrazione di stranieri.
Tutto questo è ancora tema di un acceso e talora scomposto dibattito politico che sembra voler ignorare la forza dei processi economici e sociali che stanno alla base dei flussi migratori. Ed è quasi un paradosso che le stesse forze politiche che con maggiore determinazione rivendicano la libertà dai lacci e lacciuoli della burocrazia statale ed europea, non considerino le migrazioni globali come il frutto di una tipica dinamica “liberale” che punta all’incontro tra domanda e offerta di lavoro.
Ma mentre le piazze si dividevano sulle politiche da adottare nei confronti degli immigrati, questi facevano la loro strada e consolidavano i lori processi di integrazione: si radicavano in Italia, trovavano un lavoro nelle famose “pieghe” di un mercato che pure registra un tasso di disoccupazione tra i più alti in Europa, mandavano i figli a scuola, acquistavano appartamenti e – altro dato in costante crescita – aprivano attività commerciali e imprenditoriali a un ritmo che l’economia italiana da tempo non conosce più.
Ed ancora, come la ricerca sociale attesta da tempo in vari rapporti nazionali e regionali come questo dedicato alla Basilicata, i tassi di occupazione e di produttività degli immigrati superavano quelli dei nazionali e – al netto delle speculazioni politiche – stabilizzavano un processo privo di significative criticità sociali. I problemi erano di altra natura, politici prima di tutto. Alla rilevanza dell’immigrazione in Italia, infatti, non ha mai corrisposto un via italiana all’integrazione: tutto è rimasto al fai da te dell’associazionismo o a quello animato dalla determinazione individuale di chi si è dato da fare per imparare l’italiano, capire il contesto dove viveva e lavorava, avvicinarsi alla storia sociale e culturale nazionale. Il punto di massima criticità di questo modello che in altre occasioni abbiamo definito dell’immigrazione “senza integrazione”, è stato e permane l’assenza di una politica della cittadinanza che dovrebbe consentire a chi nasce in Italia o a chi da un certo numero di anni vive e lavora nel nostro paese, di ottenere il riconoscimento della sua appartenenza alla comunità civile nazionale e quindi dei diritti e dei doveri che ne derivano, a iniziare da quello al voto.
Non si tratta di astratto formalismo giuridico: la cittadinanza e i diritti e i doveri che essa comporta sono viatico a meccanismi di partecipazione democratica essenziali per qualificare l’integrazione e la coesione sociale di un paese multietnico e multiculturale.
Ma oggi, il più grave e irresponsabile ritardo in materia di politiche migratorie, è l’incomprensione del fatto che mentre questi flussi “tradizionali” si sono stabilizzati e addirittura regrediscono numericamente, esplodono fenomeni nuovi e diversi, del tutto estranei al paradigma classico della combinazione fattori di espulsione da paesi in crisi e di attrazione in paesi sviluppati: analizzando le provenienze dei migranti che giungono in Italia attraverso le rotte mediterranee controllate dagli scafisti, emerge con chiarezza una nuova natura e una nuova dinamica dei flussi. Il meccanismo che li determina e li orienta non è più quello dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro ma quello della fuga e del rifugio. Fuga da persecuzioni, guerre civili, collasso degli stati e rifugio in paesi in cui esistono catene amicali e parentali in grado di garantire un sostegno. I dati del 2014 ci dicono che gli immigrati “2.0” che possiamo collocare in questo nuovo paradigma migratorio provengono da paesi come l’Eritrea (23,7), la Siria (22,1), il Mali (6,2), la Nigeria il 4,7, il Gambia (4,3), la Somalia (3,1), la Palestina (2,8), l’Egitto (2,6). Non sono i paesi più poveri del mondo e, soprattutto, coloro che riescono a racimolare alcune migliaia di dollari per la traversata, non sono le prime vittime della fame e dell’indigenza che ormai da decenni affligge l’Africa subsahariana.
Che siamo di fronte a flussi migratori diversi da quelli tradizionali è attestato anche dal dato delle donne e, soprattutto, dei minori che da soli si avventurano in una vera e propria odissea per raggiungere i paesi degli imbarchi, raccogliere (o difendere) i soldi necessari a pagare gli scafisti e infine arrivare sulle coste siciliane. Limitandoci ad analizzare gli sbarchi dalla Libia, quelli assolutamente prevalenti (oltre 700 nel 2014, secondo il Ministero dell’Interno), emerge che tra i migranti via Mediterraneo, il 10,9 sono donne e il 13,6 minori. A settembre del 2014, si calcolava che i minori non accompagnati – problema nel problema, e di primaria rilevanza sociale – fossero, oltre 12.000. E’ quindi realistico affermare che questa specifica categoria di persone eccezionalmente vulnerabili ammonta al 10% del totale dei migranti via Mediterraneo arrivati nel 2014. Bambini “rifugiati” che non è difficile incontrare in un qualsiasi centro d’accoglienza ma il cui destino rimane del tutto incerto. Non sono “immigrati” nel senso classico del termine ma per molti di loro sarà anche difficile dimostrare di essere “rifugiati” perché la loro storia e quella della loro fuga non sempre si inquadra nelle categorie rigide del diritto d’asilo.
Né immigrati né rifugiati, semmai immigrati e rifugiati insieme. La dinamica delle migrazioni 2.0 determinate dal “fallimento degli stati” di cui abbiamo detto è del tutto diversa: non ha questa razionalità ne questa prevedibilità; soprattutto genera una figura a metà tra il migrante e il rifugiato che il diritto nazionale e quello internazionale ancora faticano a riconoscere e interpretare. Ne sia prova che non esiste un vero meccanismo di protezione che consenta a questa particolare categoria di migranti di godere di un corridoio di protezione che gli consenta di raggiungere mete sicure. Il rischio di una traversata in mare affidando la propria vita a dei criminali sempre meglio organizzati sembra essere l’iter burocratico per avanzare una domanda di richiesta d’asilo.
Una nuova dinamica migratoria richiede nuovi strumenti di gestione dei flussi, diversi e distinti da quelli tradizionali adottati nel vecchio paradigma.
Una prima questione attiene al raggiungimento dell’Europa. In assenza di altre strade legali, quella illegale che alimenta i peggiori traffici e finanzia centrali oscure rimane l’unica via praticabile. Una politica razionale di gestione di questi flussi dovrebbe quindi indicare un’alternativa possibile. Un progetto congiunto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia e della Comunità di Sant’Egidio ha elaborato la proposta di “corridoi umanitari” e, sperimentalmente e in forma autofinanziata, sta provando a realizzarla aprendo un desk umanitario in Marocco: è una delle idee in campo, che ha il merito di essere sostenibile e praticabile nel quadro delle norme vigenti in materia di protezione umanitaria da garantire a soggetti vulnerabili. Il progetto si propone come buona pratica da generalizzare e, già ora, alcune reti europee sembrano interessate ad adottarla e a proporla ai loro governi.
Risulta chiaro, inoltre, che il primo obiettivo dei migranti non è cercare un lavoro ma riconnettersi alla sua famiglia o al suo “contatto” in Europa. Ma la rigidità delle politiche che impongono al migrante richiedente asilo di permanere nel primo paese UE in cui è arrivato sino all’esito della sua istanza, si scontra con l’ovvia esigenza di affrettare i tempi di un ricongiungimento con la rete famigliare o delle conoscenze utili a superare il trauma migratorio e ad avviare un percorso di inserimento. Ed ecco un secondo tema proprio delle “migrazioni 2.0”: non sono più gestibili nel quadro politiche nazionali ma devono diventare una “questione europea”. Ed è proprio a questo riguardo che rileviamo la maggiore e più grave criticità: l’Italia ha certamente dei “debiti” nei confronti di altri paesi dell’Unione che in passato si sono fatti carico con generosità dell’assorbimento di importanti quote ti richiedenti asilo, ma ora la situazione appare rovesciata. I duecentomila profughi previsti nel 2015 non sono e non possono essere un problema solo italiano.
L’Italia è così posta di fronte a due sfide: una attiene ai ritardi accumulati nelle politiche di integrazione dei migranti che abbiamo definiti “tradizionali”; ma l’altra ha per oggetto i nuovi flussi “2.0” che devono essere gestiti con strumenti nuovi e in buona misura ancora da approntare.
La banalizzazione e la strumentalizzazione del dibattito pubblico su questa materia non inducono alcun ottimismo. Rafforzate dalle tendenze politiche europee, anche in Italia si rafforzano piattaforme xenofobe che impediscono un confronto razionale e costruttivo su di un tema che è troppo importante per piegarlo agli interessi di parte. Il mercato politico della xenofobia è certamente molto redditizio ma non aiuta in alcun modo ad affrontare e gestire problemi complessi come quelli che abbiamo delineati.
Intanto però, i processi sociali fanno il loro corso come un fiume sotterraneo, scavando strade e gallerie che noi ancora non vediamo. Il grande pregio dei rapporti regionali come questo sulla Basilicata è di limitare l’analisi a uno specifico contesto, approfondendola in verticale e quindi evidenziando ciò che si muove nel sottosuolo. Soprattutto, un Rapporto regionale offre dei dati, ricavati da rilevazioni e mappature oggettive e scientifiche. In un tempo in cui l’emozionalità del dibattito pubblico sulle migrazioni lo priva di ogni razionalità, è già questo un risultato prezioso di cui fare il miglior uso possibile.