Chi ha cambiato il mondo? Discussioni e scenari possibili di un capitalismo in evoluzione

di Piero Di Siena

 

L’ultimo libro di Ignazio Masulli (Chi ha cambiato il mondo? Laterza, Bari-Roma 2014, euro 18.00) è una ricostruzione puntuale e documentata – cioè ricca di tabelle e di dati e di analisi comparate tra i diversi paesi, sia quelli di più recente industrializzazione che quelli più antichi – del lungo processo che a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso ha gettato le basi dell’attuale fase di riorganizzazione dell’economia mondiale. E’ anche un lavoro di sistemazione e di sintesi dei molteplici studi e delle indagini condotte dai principali organismi internazionali che ha rari precedenti, almeno in Italia. E’, inoltre, uno sguardo a ritroso sugli ultimi quarant’anni che, per rispondere all’interrogativo su cui si sofferma prevalentemente il capitolo conclusivo su come uscire dalla lunga crisi che attanaglia l’economia mondiale dal 2007-2008, va alle radici degli assetti economici e sociali che hanno caratterizzato la fase aperta dalla rivoluzione neoconservatrice iniziata con la fine della parificazione del dollaro all’oro nel 1971 e con la sistematica attuazione degli indirizzi indicati dalla Trilateral qualche anno dopo.

Masulli ha il merito di rovesciare l’interpretazione, corrente anche a sinistra, che vede nell’ipertrofico processo di finanziarizzazione dell’economia il tratto essenziale della globalizzazione attuale e la causa principale della crisi in corso. A differenza di pur importantissimi studi – quali ad esempio Finanzcapitalismo di Luciano Gallino, o Il Capitale del XXI secolo di Thomas Piketty, che traccia una mappa dell’enorme diseguaglianza prodottasi nella distribuzione della ricchezza – egli indica quale fattore fondante dell’attuale fase storica del capitalismo mondiale la svalorizzazione del lavoro iniziata alla fine del lungo ciclo espansivo dei Trenta anni gloriosi. E tale processo si è realizzato, secondo l’autore, prevalentemente attraverso la delocalizzazione della produzione industriale, e dei servizi a questa connessi, dai paesi a capitalismo maturo verso i grandi paesi asiatici, l’America Latina, e sia pure in misura minore i paesi dell’Est europeo. E’ questo fenomeno, del resto, che ha aperto la strada alla nuova divisione internazionale del lavoro che vede i paesi di nuova industrializzazione assumere il ruolo di punta nel campo della produzione di beni rispetto al monopolio fino a qualche decennio fa detenuto dai paesi dell’Occidente. I dati che Masulli riporta sono impressionanti.  Se si esaminano i principali paesi di più antico sviluppo capitalistico si vede che, tra il 1990 e il 2010, in Francia gli investimenti all’estero passano dal 8,9% del Pil al 59,8%, in Germania dal 7,6 al 43,5, in Gran Bretagna (storicamente dal suo sorgere la più internazionalizzata delle economie capitalistiche) dal 23,3 al 75,1, in Italia dal 5,3 al 23,2, e negli Stati Uniti dal 10,7 al 30,7. Crescono per questi paesi anche gli investimenti dall’estero (segno che i processi di delocalizzazione si muovono in tutte le direzioni secondo un andamento circolare), ma in ognuno di essi la forbice tra gli uni e gli altri cresce a vantaggio dei primi. Ciò ha provocato una vera e propria rivoluzione nei rapporti tra paesi nell’ambito dell’economia mondiale. Se dal 1980 al 2011 gli Stati Uniti restano la prima potenza economica mondiale in quanto al volume del Pil, nello stesso periodo la Cina passa dal ventesimo al secondo posto, l’India dal nono al terzo, la Federazione russa dal 2000 (primo anno in cui si dispone di dati confrontabili) al 2011 dal decimo al sesto, mentre tutti gli altri paesi di più antica industrializzazione scendono di posti in graduatoria.

Questo non vuol dire che Masulli sottovaluti il peso degli altri due pilastri dell’attuale processo di globalizzazione (la finanziarizzazione, appunto, e la rivoluzione informatica che ha profondamente modificato sia l’organizzazione del lavoro industriale che, soprattutto, quella nei servizi). Essi sono, al pari del lavoro, ampiamente analizzati nella loro evoluzione e trasformazione. Ma a partire dal primato assegnato alla trasformazione del ruolo sociale del lavoro esse sono viste sotto una diversa luce e in un quadro di connessioni finora non del tutto esplorato. Ad esempio, nel nesso che stabiliscono con la delocalizzazione della produzione e dei servizi, e con la precarizzazione e svalorizzazione del lavoro che ne derivano, si comprende come le innovazioni tecnologiche legate all’informatica, che pure hanno rivoluzionato l’organizzazione della produzione e la circolazione delle merci come dell’informazione, non hanno, a differenza del progresso della tecnologia in altre epoche dello sviluppo capitalistico, sorretto e stimolato un’espansione dei consumi.

Da questa analisi derivano conseguenze non di poco conto. Appare immediatamente evidente che le misure anticrisi, ispirate alle politiche keynesiane di sostegno alla domanda e agli investimenti, che da sinistra vengono opposte alle politiche ispirate all’”austerità”, se sono indispensabili a invertire il ciclo economico, nel lungo periodo non sono affatto risolutive

Secondo Masulli dalla crisi è possibile uscire solo cambiando il modello di sviluppo, attraverso scelte ecologicamente compatibili, e attraverso una vera e propria inversione di tendenza nei processi di vera e propria distruzione dell’economia agricola per affrontare l’emergenza alimentare che colpisce, a partire dall’Africa, parti grandi della popolazione mondiale.  Ma il vero punto di svolta, per Masulli, sarebbe la costruzione di un sistema di tutele e di diritti del lavoro su scala planetaria di cui investire la comunità internazionale a cominciare dalle Nazioni Unite.

Quest’ultimo aspetto – di fronte alla crisi che attraversa la comunità internazionale sempre più travagliata da guerre e conflitti ingovernabili – potrebbe apparire velleitario e utopico. Del resto quegli organismi sovranazionali a cui Masulli si appella, dalla fine del mondo diviso in blocchi hanno perso peso e incidenza anche nei campi e sulle questioni per i quali erano stati creati. E’ difficile immaginare che essi abbiano la forza di aprire il capitolo del tutto inedito di un sistema di tutele del lavoro su scala mondiale.

E tuttavia è del tutto evidente che il tema posto da Masulli è quello dirimente e decisivo per la nostra epoca. Esso rimanda alle radici della crisi della sinistra e alle ragioni di un suo possibile irreversibile declino. Il movimento operaio dei paesi a capitalismo maturo, infatti, non ha compreso che la globalizzazione in atto per la prima volta, sia pure attraverso un processo di svalorizzazione che ributtava il lavoro nelle condizioni delle origini, proprie del capitalismo nascente della prima rivoluzione industriale, faceva effettivamente del proletariato industriale un soggetto sociale di dimensione mondiale. E tale incomprensione gli ha tolto la base materiale, la forza motrice, su cui ricostruire il proprio futuro. Ciò chiama in causa soprattutto le organizzazioni sindacali, le invita a uscire fuori dai confini nazionali, a assegnare un ruolo effettivo ai propri referenti sul piano mondiale.

Si tratta finalmente di capire, dunque, che per la prima volta sul nostro pianeta l’affermazione del Manifesto di Marx e Engels del 1848 “proletari di tutto il mondo unitevi” ha cessato di essere una formulazione meramente retorica. Allora, quando il Manifesto fu scritto, la presenza del proletariato industriale era praticamente circoscritta all’Inghilterra e alle manifatture della valle del Reno. E fino ai processi esaminati da Masulli nel suo libro esso era di fatto concentrato nei paesi del cosiddetto Occidente. E’ la globalizzazione attuale che ha fatto del proletariato industriale, per la prima volta, un soggetto sociale di dimensione mondiale. Ebbene, o la sinistra riparte da qui e si dà per programma l’obiettivo indicato nel Manifesto del ’48 (come anche Masulli in altri termini invoca) oppure è inevitabile che essa diventi un’entità superflua consegnata a un’epoca ormai conclusa. E’ evidente che si tratta di un’opera immane, che impegnerà probabilmente un’intera epoca storica, di un’impresa di vaste proporzioni e di lunga durata. Ma ad essa la sinistra che affonda le sue radici nel movimento operaio, se vuole rinascere e riacquistare un ruolo sulla scena del mondo, non potrà sottrarsi ancora a lungo.