
Jobs Act: propaganda e spreco di risorse per smantellare i diritti
Sul Jobs Act si comunicano molti numeri in queste settimane e si fa molta propaganda. Secondo un articolo di Affari&Finanza sarebbero stati creati da inizio anno, grazie al Jobs Act, 616mila nuovi posti di lavoro, salvo poi commentare in coda che i flussi non si traducono automaticamente in nuovi occupati e che il precariato non conosce sosta nel suo percorso di crescita: nei primi dieci mesi del 2015 risultano infatti venduti 91.867.175 voucher, con un incremento medio nazionale, rispetto al corrispondente periodo del 2014 (54.800.369), pari al 67,6%.
Una recente indagine degli studiosi Dario Guarascio e Valeria Cirillo dell’Università Sant’Anna, mostra purtroppo una realtà non così rosea come il titolo del giornale annuncia. Le dinamiche del mercato del lavoro ci dicono che le nuove posizioni stabili (a tutele crescenti) sono solo una minoranza anche all’interno del lavoro a tempo indeterminato, la maggior parte di esse sono rappresentate da trasformazioni ed il tasso di licenziamenti, negli ultimi due anni, è rimasto stabile.
Nel corso del secondo semestre del 2015, secondo l’Istat l’incidenza del part-time involontario rappresenta il 64,6% del totale di lavoro a tempo parziale e, secondo l’INPS, le nuove assunzioni con “contratto a tutele Crescenti” guadagnano un salario mensile dell’1,4% inferiore alla platea assunta un anno prima con il vecchio contratto a tempo indeterminato.
In sostanza si resta precari e a tempo determinato. I contratti a tempo indeterminato aumentano solo nel breve lasso di tempo tra la fine del 2014 e l’anno 2015. Già da marzo 2015 – il periodo in cui il Jobs Act e gli incentivi hanno iniziato a diffondere i loro effetti – tale tendenza comincia ad essere invertita a ritmi anche piuttosto veloci: il 63% dei nuovi lavoratori – 158mila su 253mila – nei primi nove mesi del 2015 ha un contratto temporaneo. Assistiamo così ad una ulteriore liberalizzazione nell’utilizzo di contratti a tempo determinato.
Infine la disoccupazione. Secondo Eurostat in Italia si registra un’enorme transizione dalla disoccupazione all’inattività (35,7%), dato confermato dal Ministero del Lavoro secondo cui, tra il primo ed il secondo trimestre del 2015, l’Italia si caratterizza per il deflusso dalla disoccupazione all’inattività ed il passaggio nel mondo del lavoro è tra i più bassi in Europa. Nei primi nove mesi dell’anno gli over 55 hanno maggiormente beneficiato del nuovo tipo di contratto, mentre l’occupazione tra le classi più giovani e le variazioni di tasso di inattività sono associate principalmente alla Garanzia Giovani e all’esplosione nell’utilizzo dei voucher.
I numeri vanno messi in fila e nonostante gli annunci, il Jobs Act palesa un clamoroso fallimento: non promuove l’occupazione e non riduce la quota di lavoro temporaneo ed atipico; gli incentivi monetari per le imprese non si traducono in nuova occupazione stabile ma incidono piuttosto sulle trasformazioni; escludendo queste ultime ed al netto dei licenziamenti, i nuovi contratti a tempo indeterminato sono solo una piccola frazione, il 20% del totale dei contratti stipulati nel corso dei primi nove mesi del 2015; l’aumentare di posti di lavoro stabili è caratterizzato dalla bassa capacità di attrarre forza lavoro produttiva.
Il Jobs Act ha facilitato lo spostamento dell’occupazione verso settori a bassa tecnologia e bassa qualifica. Questo è particolarmente preoccupante se legato agli effetti strutturali della crisi, in particolare la significativa riduzione della capacità produttiva osservata tra 2008 e il 2013. La combinazione di politiche (Jobs Act), dal lato dell’offerta, e la fornitura di incentivi monetari indiscriminati per le imprese, si è dimostrato inefficace in termini di quantità, qualità e durata dei lavori generati. Inoltre permane forte il rischio di contribuire al peggioramento della struttura industriale italiana, che dall’avvio della crisi conosce una profonda trasformazione e in molti casi una vera e propria destrutturazione e desertificazione nei settori strategici. Oltre la propaganda resta uno straordinario spreco di risorse per smantellare i diritti dei lavoratori e la qualità dello sviluppo del nostro Paese.