13 Luglio 2014: in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il Presidente del Consiglio Renzi, parlando del progetto minerario contenuto nel piano “Sblocca Italia”, afferma: “È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini”.[1]
Un paio di mesi dopo, intervenendo all’inaugurazione delle “Rubinetterie Bresciane” a Gussago, in provincia di Brescia, il Presidente del Consiglio ribadisce il concetto, dicendo: “Siamo in una crisi energetica che voi tutti conoscete e abbiamo un sacco di petrolio in Basilicata e in Sicilia che non tiriamo su per problemi dei comitati di turno, io dico: vorrà dire che perderò qualche voto ma la norma per sbloccare e tirar su il petrolio in Basilicata e in Sicilia, creando posti di lavoro in Basilicata e in Sicilia, consentendo a questo Paese di vincere la crisi energetica, io la norma la faccio, anzi, l’ho già fatta, e vada come deve andare”.
La norma di cui fa riferimento Renzi viene pubblicata in Gazzetta Ufficiale solo pochi giorni più tardi (GU n.212 del 12 settembre 2014). È l’ormai noto Decreto-Legge n.133 del 12 settembre 2014, il cosddetto “Sblocca Italia”, che titola “Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive” con il quale il Governo, ravvisata la necessità e l’urgenza di “Sbloccare” l’Italia, ha ritenuto di esercitare eccezionalmente la funzione legislativa normalmente spettante al Parlamento. L’eterogeneità delle categorie di intervento, testimoniata anche dalla lunghezza stessa del titolo, si riflette in un lungo articolato che di articoli ne conta ben 45 e che spaziano, tra le altre “urgenze”, dall’alta velocità sulla linea ferroviaria Napoli-Bari, alla realizzazione dell’autostrada Orte-Mestre per arrivare fino alle attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi, trattate nell’ormai famigerato articolo n.38 che titola, appunto, “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”.
Con riferimento al testo coordinato con la legge di conversione[2] e con i commi 552, 553 e 554 della legge di stabilità 2015[3], diverse sono le novità introdotte con l’articolo 38 del decreto rispetto alla legislazione previgente in materia di ricerca ed estrazione di idrocarburi. Tra le più importanti vi sono sicuramente il titolo concessorio unico e la valutazione ambientale da parte di una commissione tecnica ministeriale. Il titolo concessorio viene definito “unico” poiché nell’intenzione del legislatore dovrà valere sia per le attività di ricerca, per le quali verrà accordato per un periodo di 6 anni prorogabili per un massimo di altri 6, che per le eventuali attività di coltivazione nel caso di rinvenimento di giacimenti tecnicamente ed economicamente sfruttabili, per cui sarà automaticamente accordato per una durata di 30 anni prorogabile di altri 10 anni per un numero indefinito di volte. Il titolo verrà accordato mediante decreto ministeriale e di intesa con le Regioni interessate, entro il termine di 180 giorni, in una conferenza di servizi nell’ambito della quale è svolta anche la valutazione ambientale. Detta valutazione, prima di competenza delle Regioni, è ora affidata ad una commissione tecnica del Ministero dell’Ambiente alla quale sono concessi 60 giorni per esprimersi. Non certo trascurabili sono anche le modifiche introdotte al comma 82-sexies dell’articolo 1 della legge n.239/2004. Prima dell’articolo 38 questa norma prevedeva che “le attività finalizzate a migliorare le prestazioni degli impianti di coltivazione di idrocarburi, compresa la perforazione, se effettuate a partire da opere esistenti e nell’ambito dei limiti di produzione ed emissione dei programmi di lavoro già approvati” fossero soggette ad autorizzazione ministeriale. Con l’articolo 38 del Decreto “Sblocca Italia” a queste “attività di miglioramento delle prestazioni” degli impianti esistenti viene espressamente aggiunta anche la reiniezione delle acque di strato o della frazione gassosa estratta in giacimento assoggettandola, quindi, ad autorizzazione ministeriale. Il comma 82-sexies, come modificato dall’art.38, si chiude poi con la precisazione che le autorizzazioni relative alla reiniezione “sono rilasciate con la prescrizione delle precauzioni tecniche necessarie a garantire che esse non possano raggiungere altri sistemi idrici o nuocere ad altri ecosistemi”. Al di là della valenza pratica dell’ultimo assunto, certamente non paragonabile per potenza al primo, di fatto si riconosce l’interazione di un certo tipo di attività con i sistemi idrici, almeno sul piano potenziale. L’ultima tra le novità introdotte dallo “Sblocca Italia” in materia di estrazioni petrolifere che qui si intende portare all’attenzione è contenuta nel comma 1-bis nell’articolo 38, così come sostituito dall’art.1, comma 554, della legge di stabilità 2015. Il comma citato prevede la predisposizione di un piano delle aree “in cui sono consentite le attività di cui al comma 1”, ovvero la prospezione, la ricerca e la coltivazione di idrocarburi, nonché lo stoccaggio sotterraneo di gas naturale. Per quanto riguarda le attività in terraferma, l’adozione del piano viene subordinata al raggiungimento dell’intesa con la Conferenza Unificata fermo restando che, “in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, si provvede con le modalità di cui all’articolo 1, comma 8-bis, della legge 23 agosto 2004, n.239”. In altre parole, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, annoverando anche il motivato dissenso, si richiama la facoltà, in capo al Ministero dello Sviluppo Economico, di rimettere gli atti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che provvede in merito entro 60 giorni con la partecipazione della Regione interessata. In effetti, il comma 8-bis della legge n.239/2004 è frutto di una modifica introdotta con l’articolo 38 del Decreto-Legge n.83/2012, così detto “Decreto Sviluppo”, del Governo Monti.
Dunque, di “articolo 38” e di decreti-legge con cui, in qualche maniera, il Governo centrale ha provato a snellire le procedure autorizzative che riguardano le infrastrutture energetiche nazionali ce ne sono due e, in entrambi i casi, al di là delle motivazioni precipue e del profilo di costituzionalità di ciascuno, hanno avuto l’effetto di sottrarre alle istituzioni regionali porzioni più o meno importanti di potere in quelle materie, come l’energia ed il governo del territorio, che, vigente l’attuale formulazione dell’articolo 117 della Costituzione Italiana, sono materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni, appunto.
Con la riforma del “Titolo V”della Costituzione, avvenuta con l’approvazione della legge costituzionale n.3 del 2001, lo Stato italiano sembrava avviato ad assumere una fisionomia sempre più “federalista”, in cui i centri di spesa e di decisione si sarebbero spostati dal livello centrale a quelli più locali – essenzialmente le Regioni – per avvicinarli di più ai cittadini.
In materia di energia e governo del territorio, con l’articolo 38 del “Decreto Sviluppo” (2012, Governo Monti) ed in seguito con l’articolo 38 del Decreto “Sblocca Italia” (2014, Governo Renzi) si imprime una netta inversione di tendenza anticipando, di fatto, quella che potrebbe essere la futura nuova riforma costituzionale del “Titolo V” che, insieme con la fine del bicameralismo perfetto, riformerebbe in senso più “centralista” lo Stato italiano eliminando “tout court” le materie a legislazione concorrente tra Stato e Regioni attribuendo allo Stato, in particolare, la potestà legislativa esclusiva su materie e funzioni quali:“norme generali sul governo del territorio […]”;produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia; infrastrutture strategiche[…]”[4].
In effetti, nell’ottobre del 2012 la Regione Basilicata ha impugnato un “articolo 38”, quello del “Decreto Sviluppo”, sollevando la questione di legittimità costituzionale con riferimento al comma 1, che prevedeva la rimessione degli atti alla Presidenza del Consiglio in alcuni casi di mancate intese. Nelle motivazioni del ricorso la Regione Basilicata argomentava, tra l’altro, che la norma impugnata avrebbe prodotto un sostanziale “declassamento” dei rapporti tra Stato e Regione, da un livello d’intesa “in senso forte” ad un’intesa in “senso debole”, ovvero ad un semplice “parere” della Regione, come tale inidoneo a garantire il principio di leale collaborazione[5]. Esattamente un anno più tardi, ed era l’ottobre del 2013, con sentenza n.239/2013 la Corte Costituzionale dichiarava inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Regione Basilicata in riferimento agli artt.114 e 123 della Costituzione e non fondata la questione di legittimità in riferimento all’art.117 e al principio di leale collaborazione[6]. Nelle argomentazioni della sentenza si richiama l’attenzione al fatto che il dettato della norma impugnata si riferisce a tre ipotesi precise, ovvero: di mancata espressione dell’intesa riguardo alle funzioni di cui ai commi 7 e 8 dell’art.1, legge n.239/2004 (ndr p.es. prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, reti nazionali di gasdotti, stoccaggi, ecc.); di mancata definizione dell’intesa di cui all’art.52-quinquies, comma 5, del d.P.R. n.327/2001 (ndr infrastrutture a rete, p.es. gasdotti); di mancato rispetto dei termini, da parte delle amministrazioni regionali competenti, per l’espressione dei pareri o per l’emanazione degli atti di propria competenza. In pratica, parafrasando la sentenza, poiché la norma si riferisce a fattispecie che di per sé rappresentano forme di inerzia delle amministrazioni regionali, cioè condotte meramente passive (cit. “concretanti, esse stesse, ipotesi di mancata collaborazione”), il legislatore con la norma in questione ha inteso superare situazioni di “stallo” prevedendo la rimessione degli atti alla Presidenza del Consiglio solo in caso di “ulteriore inerzia” delle amministrazioni stesse. Dunque, dice la sentenza, “la disposizione è finalizzata a superare dette forme di inerzia e, pertanto, in tali sensi interpretata, non viola le competenze costituzionali della Regione, né si pone in contrasto con il principio di leale collaborazione, che anzi intende attuare”.
Solo qualche mese prima, nel giugno del 2013, dalla Corte Costituzionale arrivò un’altra bocciatura per Basilicata. Questa volta, a parti inverse, fu la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad impugnare una norma regionale, passata alle cronache come “moratoria sul petrolio”, in base alla quale la Regione disponeva che “nell’esercizio delle proprie competenze in materia di governo del territorio ed al fine di assicurare processi di sviluppo sostenibile”, “non rilascerà l’intesa” “al conferimento di nuovi titoli minerari per la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi”[7]. In verità, già dalla sua approvazione sono stati in molti ad avanzare dubbi sulla costituzionalità della “moratoria”, anche perché con la Regione Abruzzo vi era già stato un precedente analogo sul quale la Corte Costituzionale si era già espressa. E infatti, senza sorprese, la Corte si pronunciò accogliendo il ricorso della Presidenza del Consiglio argomentando in questi termini: “Il legislatore lucano non contesta la previsione della necessità dell’intesa”, “ma dispone un diniego preventivo e generalizzato di addivenire, in tutti i casi concreti, ad un accordo. Tale previsione legislativa si pone in aperto contrasto con la ratio stessa del principio di leale collaborazione, che impone il rispetto, caso per caso, di una procedura articolata, tale da assicurare lo svolgimento di reiterate trattative”.
Con una inaspettata inversione di rotta rispetto allo spirito che aveva animato il “Memorandum di intesa Stato-Regione” sottoscritto solo qualche mese prima, il Governo regionale della Basilicata intese gettare un guanto di sfida al Governo centrale nel tentativo di impedire ogni nuovo progetto di ricerca e coltivazione di idrocarburi entro i confini lucani. Con la “moratoria sul petrolio” e l’impugnazione dell’articolo 38 del “Decreto Sviluppo” si disegnò una strategia rivelatasi quasi immediatamente vana, se non addirittura dannosa e controproducente. Mentre l’anno prima, con il “memorandum” Stato e Regione si davano vicendevolmente atto che “la Basilicata rappresenta il nodo centrale del sistema dell’energia per il mezzogiorno, svolgendo un ruolo rilevante per l’intero Paese”, che “in Val d’Agri esiste il più grande giacimento petrolifero dell’Europa continentale” “suscettibile di rilevanti ulteriori incrementi” e che “nella Regione sussistono inoltre potenzialità ulteriori di sviluppo e di stoccaggio che potranno essere opportunamente valorizzate”[8] insomma, mentre si gettavano le basi per il futuro aumento delle estrazioni in Basilicata, anticipando alcuni aspetti poi ripresi nella Strategia Energetica Nazionale, l’anno dopo Stato e Regione erano ai ferri corti.
Da un lato il Governo regionale della Basilicata cercava di organizzare una battaglia di retroguardia, dall’altro lo Stato centrale confezionava una serie di provvedimenti di cui l’articolo 38 del decreto-legge “Sblocca Italia” appare essere solo uno degli ultimi tasselli, quello operativo. Infatti, con l’approvazione di un decreto interministeriale del Ministero dello Sviluppo Economico di concerto con il Ministero dell’Ambiente nel 2013 è pubblicata la Strategia Energetica Nazionale, al cui interno si trovano tratteggiati alcuni aspetti che un anno più tardi troveranno attuazione nel decreto “Sblocca Italia”, segnatamente nell’articolo 38.
La Strategia Energetica Nazionale (SEN).
Come si legge nelle premesse del documento, riconosciuto il ruolo fondamentale del settore energetico nella crescita dell’economia del Paese, “sia come fattore abilitante, sia come fattore di crescita in sé […]il Governo ha ritenuto indispensabile lavorare alla definizione di una Strategia Energetica Nazionale che esplicitasse in maniera chiara gli obiettivi principali da perseguire nei prossimi anni, tracciasse le scelte di fondo e definisse le priorità d’azione […]per assicurare (ndr al Paese) un’energia più competitiva e sostenibile”[9]. Non a caso il documento fa delle parole chiave “crescita” e “competitività” i due punti cardine di tutto l’impianto e, forse, non poteva essere altrimenti. Infatti, il contesto in cui ha luogo la consultazione pubblica sul documento di proposta approvato dal Consiglio dei Ministri (consultazione durata da metà ottobre fino dicembre 2012) e poi l’approvazione del documento finale (marzo del 2013), vedeva l’Italia nel pieno di una crisi economica internazionale, con il famoso spread ancora a350 punti, sebbene in discesa, ed un Governo tecnico in carica per l’emergenza.
Il documento di programmazione si apre con una lunga e puntuale analisi sul contesto energetico Italiano ed internazionale in cui viene messo in evidenza, tra le altre cose, lo stato di forte dipendenza dell’Italia dai paesi esteri in termini di approvvigionamento energetico. I dati utilizzati per la descrizione del contesto sono quelli relativi agli anni 2010 e 2011, mentre la strategia è definita rispetto all’anno base 2011 con orizzonte fissato al 2020. Un secondo orizzonte temporale è individuato al 2050 per la strategia definita “di lungo e lunghissimo-periodo” rispetto alla quale, però, il documento enuncia solo dei principi generali.
Dal punto di vista metodologico, la SEN si incentra su quattro obiettivi principali:
- ridurre il costo dell’energia;
- raggiungere e superare gli obiettivi ambientali e di decarbonizzazione definiti dal Pacchetto europeo Clima-Energia 2020 (cosiddetto “20-20-20”);
- migliorare la sicurezza di approvvigionamento energetico, riducendo il livello delle importazioni;
- favorire la crescita economica sostenibile attraverso lo sviluppo del settore energetico;
e definisce sette priorità d’azione:
- efficienza energetica;
- mercato competitivo del gas e hub sud-europeo;
- sviluppo sostenibile delle energie rinnovabili;
- sviluppo delle infrastrutture del mercato elettrico;
- ristrutturazione della rete di raffinazione e distribuzione dei carburanti;
- produzione sostenibile di idrocarburi nazionali;
- modernizzazione del sistema di governance.
Per conseguire l’obiettivo di riduzione del livello di importazioni di energia, la SEN individua tre priorità d’azione: l’efficienza energetica, lo sviluppo delle rinnovabili e la produzione di idrocarburi nazionali. Rispetto a queste priorità la SEN fissa gli obiettivi in termini di risparmio sul costo delle importazioni rispetto al 2011 (anno di riferimento). Proponendo un ragionamento a livello macro-economico, atteso che al 2011 le importazioni nette di energia hanno comportato un costo di sistema pari a circa 62 miliardi di euro, pari al 4% del PIL contro una media europea del 3,3%, e che, in assenza di interventi, tale costo potrebbe ulteriormente incrementarsi di 5 miliardi al 2020, la SEN si prefigge un abbattimento della “fattura energetica” di 14 miliardi di euro al 2020 rispetto ai livelli del 2011, ovvero di 19 miliardi se riferiti allo scenario potenziale (ipotesi di prezzi invariati). Il grafico che segue, tratto dal testo della SEN, evidenzia per ciascuna delle tre priorità d’azione il relativo contributo, espresso in miliardi di euro, all’abbattimento dei costi preventivato.
Grafico 1 – SEN: Priorità d’azione rispetto all’obiettivo del miglioramento della sicurezza energetica |
Oltre alla quantificazione dei risparmi in termini di denaro, per ciascuna delle tre priorità sono esplicitati anche i pesi relativi in termini energetici mediante il ricorso alla “tep” (acronimo di tonnellata equivalente di petrolio) che è l’unità di misura che serve per rendere omogenee grandezze altrimenti non confrontabili parametrandole rispetto all’energia contenuta in una tonnellata di petrolio. Tramite misure di efficienza energetica, l’obiettivo al 2020 è quantificato in un risparmio annuo di 20 Mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti), corrispondenti ad un risparmio di 8 miliardi di euro; per le produzioni da fonti rinnovabili l’obiettivo è un incremento di 15-16 Mtep, con un “risparmio” annuo di 6 miliardi di euro e, infine, per quanto riguarda la produzione nazionale annua di idrocarburi l’obiettivo è quello di raddoppiarla prevedendone un aumento di circa 12 Mtep che, ai prezzi del 2011, consentirebbero un “risparmio” di circa 5 miliardi di euro all’anno.
In effetti, ridurre il ragionamento alla semplificazione macro-economica – per certi versi necessaria – non restituisce un quadro di verità esaustivo, mettendo sullo stesso piano “veri” risparmi per il sistema energetico, quali quelli derivanti dalla riduzione dei consumi che si avrebbero per effetto dell’efficienza energetica, con quelli che, invece, sono piuttosto dei ricavi per il sistema economico nel suo complesso, forse inferiori rispetto ai valori delle produzioni e certo non quantificabili con esattezza. Come non sono esattamente quantificabili i costi che ciascuna priorità d’azione comporta, siano essi di tipo diretto (per esempio le forme di incentivazione per efficienza energetica e produzioni rinnovabili) che di tipo indiretto (in tutti i casi: consumo di suolo, paesaggio, ambiente, ecc.). Ecco, quindi, che la semplificazione a livello macro-economico è certamente necessaria ma va considerata per quello che è: una semplificazione, appunto.
Tornando alle singole priorità, dalle tabelle contenute nel documento, si osserva che gli obiettivi fissati in termini di aumento delle produzioni da fonti rinnovabili risultavano praticamente raggiunti, o in procinto di esserlo (con la sola eccezione del settore dei trasporti), già al momento in cui la strategia veniva pubblicata. Il grafico che segue mostra appunto il dettaglio degli obiettivi della SEN relativamente alle produzioni da rinnovabili con riferimento al settore elettrico, al settore termico ed al settore dei trasporti. Per i tre settori gli obiettivi sono rappresentati sia in termini di incidenza percentuale sui consumi finali lordi, che in termini assoluti (TWh e Mtep per il settore elettrico, Mtep per gli altri settori).
Grafico 2 – SEN: Obiettivi in termini di aumento delle produzioni da fonti rinnovabili |
Nel rapporto statistico sulle energie rinnovabili[10] recentemente pubblicato dal GSE nell’ambito delle attività di monitoraggio dello sviluppo di queste fonti, si legge che nel 2013 (anno di approvazione della SEN) i consumi complessivi di energia da fonti rinnovabili in Italia sono risultati pari a 20,7Mtep. Per quanto riguarda il settore elettrico, applicando le regole di calcolo previste dalla Direttiva 2009/28/CE, in Italia si sono prodotti nel 2013 103,3 TWh (8,9Mtep) di energia elettrica da fonti rinnovabili, mentre nel settore termico il contributo delle fonti rinnovabili è stato di circa 10,6Mtep e nel settore dei trasporti di circa 1,25Mtep. Il che significa che lo stato di avanzamento delle produzioni da fonti rinnovabili nel settore elettrico, termico e dei trasporti rispetto agli obiettivi fissati dalla SEN, già nel 2013, era pari all’80%, 96% e 50%, rispettivamente. Percentuali che verosimilmente si sono incrementate nell’ultimo anno (2014) per il quale, però, ancora non è disponibile il rapporto statistico.
Molto più “attuali” sono, invece, gli obiettivi che la SEN fissa per l’efficienza energetica e l’aumento della produzione nazionale di idrocarburi.
A differenza delle produzioni da fonti rinnovabili, nel caso dell’aumento delle produzioni nazionali di idrocarburi la SEN riassume gli obiettivi attraverso la tabella 50 del documento (Grafico 3), che qui di seguito si riporta integralmente.
Grafico 3 – SEN: Obiettivi in termini di aumento delle produzioni nazionali di idrocarburi. |
Come si osserva, gli obiettivi immaginati nella SEN in termini di incremento di produzioni di gas e olio greggio sono particolarmente ambiziosi, soprattutto nel caso dell’olio greggio per il quale il proposito è di incrementarne la produzione di ben il 148% al 2020 rispetto al valore registrato nel 2011, che è stato pari a 38Mboe (milioni di barili, fonte MISE). Dal momento che la situazione attuale delle produzioni nazionali di petrolio è lievemente mutata rispetto al dato dell’anno di riferimento della SEN (2011), è opportuno riferirsi non tanto all’obiettivo espresso in termini percentuali, quanto piuttosto al target dei 95Mboe all’anno da raggiungere entro il 2020. Come vedremo più avanti in dettaglio, nel 2014 in Italia la produzione di greggio è stata di circa 39 milioni di barili (fonte MISE) dei quali il 69% (27,2Mboe) provenienti dalla Basilicata, il 16% (6,4Mboe) dalla Sicilia, il 13% (5,2Mboe) dalle estrazioni in mare ed il restante 2% (0,5Mboe) da altri giacimenti minori. Ipotizzando che nel breve periodo il target fissato dalla SEN possa essere raggiunto attingendo a quelle zone in cui sono attualmente localizzate le attività estrattive più importanti e nell’ipotesi in cui il contributo percentuale delle aree interessate rimanesse sostanzialmente invariato (è un’ipotesi funzionale solo a restituire un ordine di grandezza), avremmo che la Basilicata contribuirà alla produzione del 2020 con 65,6Mboe (milioni di barili all’anno) che, tradotti in produzione giornaliera, corrispondono ad una media di circa 180.000 bbl/d (barrels per day: barili al giorno) rispetto ai poco meno di 75.000 bbl/d attuali (2014), segnando un incremento di +105.000 bbl/d. Sebbene frutto di un ragionamento semplificato, questo dato trova un certo riscontro nello scenario auspicato da Assomineraria che, in un documento dal titolo “Petrolio e Gas in Italia: un’opportunità per la crescita – Contributo al dibattito sull’energia” pubblicato a settembre 2012 (circa un mese e mezzo prima dell’approvazione della bozza della SEN in Consiglio dei Ministri) esponeva in questi termini “[…] l’esame dei progetti proposti o già avviati dagli operatori sulle riserve già accertate e non ancora sviluppate, indica come sia possibile più che raddoppiare la produzione petrolifera attuale nell’arco del decennio in corso. I principali progetti di produzione di petrolio da cui tale potenziale potrebbe derivare sono localizzati: Onshore, prevalentemente in Basilicata, con una produzione che potrebbe incrementare di circa 107.000 bbl/d; Offshore, sia in Adriatico che nel Canale di Sicilia, dove alcuni nuovi progetti e diversi in fase di revamping o ampliamento potrebbero garantire una produzione addizionale di circa 15.000 bbl/d (ndr potenziale di un ordine di grandezza inferiore rispetto a quello della Basilicata)”.[11]
In effetti il parallelo tra i due documenti non si limita soltanto alla quantificazione numerica degli obiettivi ma interessa anche le ragioni di fondo e, almeno in parte, lo si ritrova anche nell’individuazione dei possibili strumenti normativi, come nel caso del titolo concessorio unico per le attività di ricerca e coltivazione che un paio d’anni più tardi ritroveremo declinato nell’articolo 38 del decreto-legge “Sblocca Italia”.
Per quanto riguarda le motivazioni di fondo, tanto il documento di Assomineraria quanto la SEN incentrano i propri ragionamenti sul fatto che nei prossimi decenni le fonti fossili continueranno ad avere un ruolo determinante nel cosiddetto mix-energetico italiano (Assomineraria parla di “perdurante dominio degli idrocarburi” di cui “c’è da prendere consapevolezza”) e poichè circa il 90% del fabbisogno annuo di idrocarburi in Italia (pari a 135Mtep) è coperto dalle importazioni, si ritiene opportuno valorizzare le riserve interne al fine di ridurre la dipendenza estera e migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti. Come riportato nel grafico che segue, preso tal quale dal testo della SEN e costruito sui dati del Ministero dello Sviluppo Economico, le riserve certe di idrocarburi (olio e gas) in Italia sono stimate pari a circa 126Mtep, mentre sono circa 700Mtep quelle definite probabili e possibili secondo una classificazione riconosciuta a livello internazionale.
Grafico 4 – SEN: Consumi e riserve di gas e petrolio in Italia (situazione al 2011) |
Come si vede, le sole riserve certe potrebbero soddisfare i fabbisogni attuali per poco meno di un anno, mentre se si considerano anche quelle probabili e possibili i fabbisogni attuali verrebbero coperti per circa cinque anni. Al ritmo di produzione attuale (il riferimento è al 2011) pari a circa 12Mtep, le sole riserve certe ci consentirebbero di mantenere l’attuale livello di dipendenza dall’estero per poco più di dieci anni, periodo che si dimezzerebbe nello scenario che prevede un raddoppio delle produzioni interne. Se dall’ambito delle riserve certe ci spostiamo in quello aleatorio delle probabili e possibili, l’attuale “prelievo” di 12Mtep all’anno garantirebbe una situazione come quella attuale per altri 55 anni, la metà nel caso del raddoppio delle estrazioni. A ragionamenti di questo tipo la SEN affianca anche ragioni di opportunità legate alle ricadute positive che verrebbero a determinarsi con un raddoppio delle produzioni interne: prima fra tutte la riduzione della “bolletta energetica” di 5 miliardi di euro su una spesa che nel 2011 è stata di 62 miliardi di euro e, immediatamente appresso, l’attrattività del Paese rispetto agli investimenti esteri, il sostegno all’industria del settore e l’incremento dei livelli occupazionali stimato in possibili 25.000 nuovi posti di lavoro.
In effetti, l’eccessiva dipendenza energetica dalle importazioni estere per l’Italia è un problema serio, tanto più se considerato alla luce delle instabilità geopolitiche internazionali che interessano aree geografiche da cui storicamente ci approvvigioniamo (p.es. la Libia). Tuttavia, come si evince dai numeri riportati nelle tabelle, la migliore soluzione possibile in termini di intensificazione dello sfruttamento delle risorse interne non modifica la sostanza del problema, avendo un effetto marginale sulla dimensione complessiva. Più concrete sembrano essere, invece, le motivazioni “collaterali”. A questo proposito è interessante riportare quanto scrive l’agenzia statunitense EIA[12] nelle “Country Analysis Notes” che, con riferimento proprio all’Italia, afferma: “L’Italia rappresenta il maggior centro di raffinazione in Europa ed esporta significative quantità di prodotti petroliferi raffinati. Con 15 centri di raffinazione ed una capacità complessiva prossima a 2,1 milioni di barili al giorno, l’Italia si colloca al secondo posto in Europa dopo la Germania, secondo dati forniti da Oil & Gas Journal (OGJ). Tuttavia, le raffinerie italiane sono a rischio di chiusura nei prossimi anni a causa del calo dei consumi nazionali di prodotti petroliferi e della concorrenza asiatica”[13]. Come si osserva dal grafico che segue, infatti, il consumo di petrolio in Italia è diminuito di oltre il 30% negli ultimi 15 anni, passando da un valore prossimo ai due milioni di barili al giorno tra il 1988 ed il 1998 a poco più di un milione e trecento mila nel 2013.
Grafico 5 – EIA: Consumo di petrolio in Italia tra il 1980 ed il 2013 (in migliaia di barili al giorno). |
Dal grafico non si colgono andamenti riconducibili a momenti particolari. Ad esempio, sebbene la crisi economica internazionale, iniziata nel 2008, ha contribuito certamente ad una riduzione dei consumi energetici, il suo effetto non è visibile come segno di discontinuità nel grafico poiché, evidentemente, il suo contributo è andato semplicemente a sommarsi ad un calo già in atto ed iniziato almeno un decennio prima. Oltre a possibili effetti legati alla annosa ed ormai strutturale carenza di politiche industriali nel Paese, con tutto ciò che questo ha comportato in termini di delocalizzazioni all’estero di molti siti produttivi, è presumibile che un ruolo non trascurabile lo abbiano avuto anche l’accresciuta efficienza energetica nel settore residenziale e nei trasporti e l’incremento delle produzioni da fonti rinnovabili che, soprattutto nel settore elettrico, hanno assunto un peso notevole negli ultimi anni.
Dunque, se da un lato gli obiettivi fissati dalla SEN in termini di aumento delle produzioni interne di idrocarburi costituiscono una goccia nel mare rispetto al problema della dipendenza dell’Italia dalle importazioni estere di energia, dall’altro è evidente che essi consentono di soddisfare tutta una serie di altre esigenze, non ultime quelle di bilancio, trascurandone altre.
Il capitolo con cui la SEN affronta il tema, si conclude con una serie di suggerimenti in merito ad iniziative di carattere normativo definite utili per il conseguimento degli obiettivi prefissati. In questo ambito fanno la loro comparsa, oltre al titolo concessorio unico, anche l’individuazione e l’identificazione, d’intesa della Conferenza Unificata, dei territori interessati da progetti ed infrastrutture energetiche strategiche (quello che nell’art.38 diventerà il cosiddetto “piano delle aree”), le valutazioni e le autorizzazioni ambientali a livello statale e la formula del dibattito pubblico, unico strumento che non troverà attuazione nello “Sblocca Italia”, oltre, poi, ad una lunga e ragionata analisi tesa a dimostrare la necessità di una modifica dell’art.117 della Costituzione al fine di eliminare le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni per velocizzare gli iter autorizzativi.
In un quadro di programmazione così fatto, predeterminato da altri ed altrove, alla Basilicata si chiede il contributo maggiore, soprattutto in termini di produzione di olio greggio dal momento che, stando agli ultimi dati pubblicati dal Ministero dello Sviluppo Economico, qui si trova localizzato oltre l’80% delle riserve certe, mentre per le riserve di gas la quota è di circa il 30%[14].
Un “sacco” di petrolio in Basilicata: produzioni attuali e produzioni future
Che nelle profondità del sottosuolo della Basilicata vi sia un “enorme giacimento petrolifero” e che la Basilicata sia un “immenso pozzo nero” sono frasi ormai entrate a far parte dell’immaginario collettivo. Espressioni del parlare comune che da sole non riescono, però, a descrivere compiutamente la realtà. Infatti, quando la realtà che si vuol rappresentare è fatta di cifre, come è questo il caso, concetti come “tanto” e “poco”, finiscono per perdere senso pratico e tocca restare sui numeri e su concetti più concreti, certamente meno suggestivi.
Nella tabella che segue sono riportati i dati delle produzioni nazionali di olio greggio suddivise tra estrazioni in mare ed in terraferma dal 1980 a tutto il 2014 con dettaglio relativo a quelle regioni d’Italia, tra cui la Basilicata, in cui al 2014 risultano concentrate le maggiori produzioni rilevate. Si tratta di una nostra elaborazione eseguita sulla base di dati pubblicati sul sito internet istituzionale dell’UNMIG (Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e la Geotermia) del Ministero dello Sviluppo Economico.
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Tabella 1[15] – Produzione nazionale di olio greggio suddivise per regioni ed aree marine (in tonnellate) – Periodo: 1980-2014. |
Come si evince dalla tabella, in Basilicata è da molti anni ormai che si estraggono quantitativi non trascurabili di petrolio. La situazione attuale è figlia di due momenti della storia recente che hanno segnato e ancora incideranno sulla vicenda petrolio in Basilicata e con essa l’evoluzione stessa della Regione: il 1989, anno di conferimento della prima concessione di coltivazione (“Grumento Nova”) di quello che si rivelerà il più grande giacimento in terraferma dell’Europa continentale, ed il 1998, anno in cui vengono sottoscritti gli accordi tra ENI e Regione, e tra Governo e Regione per lo sfruttamento del petrolio in Val d’Agri.
Nel 1997, in un articolo apparso su “La Repubblica”, sono state riportate alcune dichiarazioni rilasciate dall’amministratore delegato della società britannica Enterprise Oil in cui il giacimento della Val D’Agri è stato definito in termini a dir poco entusiastici come “il più grande mai trovato sulla terraferma in Europa Occidentale” .
Soltanto pochi anni prima l’euforia degli operatori era tutta per il ritrovamento del giacimento di “Villafortuna-Trecate”, tra le province di Novara e Milano, che veniva definito anch’esso “il più grande in terraferma mai scoperto in Europa”. Scoperto nel 1984 con la perforazione del pozzo “Villafortuna 1”, entrò in produzione nel 1988 ed oggi è in via di esaurimento (tabella 1, colonna Piemonte). In totale sono stati perforati 39 pozzi[16], di cui 24 produttivi mineralizzati ad olio, 12 risultati sterili e 3 destinati alla reiniezione dell’acqua di giacimento. La concessione, di titolarità 100% ENI, si avvale di un centro di raccolta e trattamento di dimensioni e capacità simili a quelle del centro oli di Viggiano: estensione di circa 16 ettari e massima capacità produttiva di 85 mila barili al giorno registrata nel 1997. Per un intero decennio, infatti, dal 1991 al 2001, è stata la concessione di coltivazione trainante per la produzione di olio greggio in Italia. Attualmente la produzione del giacimento è ai suoi minimi storici (si parla di “declino naturale” con un ritmo produttivo che nel 2014 si è attestato su valori di poco superiori ai mille barili al giorno) e la situazione, che ormai si protrae già da alcuni anni, sta creando delle preoccupazioni tra i lavoratori. Fonti di stampa locale[17] riferiscono di 60 addetti diretti del centro oli di Trecate e circa 600 nell’indotto a rischio licenziamento. Secondo queste stesse fonti, l’ENI avrebbe parlato chiaro: o si trova nuovo petrolio o si chiuderà la centrale di Trecate. Il riferimento è ad un progetto per un pozzo esplorativo da realizzarsi nel vicino comune di Carpignano Sesia che viene, però, fortemente osteggiato da parte della popolazione locale e da alcuni sindaci, tra cui è ancora viva la memoria di un incidente di “blow-out” che nel 1994 riguardò il pozzo “Trecate 24” che per due giorni eruttò petrolio nei campi circostanti.
Focalizzando nuovamente l’attenzione sul caso Basilicata, nella tabella che segue, sono mostrati i dati relativi alle produzioni registrate negli ultimi dieci anni per ciascuna delle zone di estrazione, sia in termini di quantità (tonnellate), che in termini percentuali rispetto al totale delle produzioni annue.
Tabella 2[18] – Produzione nazionale di olio greggio suddivise per regioni ed aree marine (in tonnellate ed in percentuale) – Periodo: 2005-2014. |
Nel periodo considerato (2005-2014) si osserva che il contributo offerto dalla Basilicata alla produzione nazionale di olio greggio ha sempre oscillato tra il 68 ed il 75%. Nell’anno appena trascorso, ad esempio, sono state ricavate dal sottosuolo lucano circa 4 milioni di tonnellate di petrolio, corrispondenti a quasi il 70% del petrolio complessivamente estratto in Italia. Volendo esprimere queste stesse quantità in termini di barili[19], nel 2014 in Basilicata si sono estratti circa 27,2 milioni di barili di greggio, per oltre il 99,4% provenienti dalla concessione di coltivazione “Val d’Agri” che è una delle due mineralizzate ad olio oggi in produzione sul territorio lucano. L’altra è la concessione “Serra Pizzuta” di Pisticci: attiva dal 1976, attualmente contribuisce al totale estratto in Basilicata per una quota pari allo 0,6% circa. Dunque, dalla sola concessione “Val d’Agri” nel 2014 si sono estratti mediamente oltre 74 mila barili al giorno, con un picco medio calcolato sulla produzione registrata nel mese di dicembre. Ciò è risultato prossimo agli 80 mila barili al giorno, valore che restituisce l’ordine di grandezza circa l’attuale massima capacità produttiva della concessione “Val d’Agri”, dovuta non tanto alle potenzialità del giacimento in sé chead oggi non è ancora completamente sviluppato, quanto del centro di raccolta e trattamento olio che attualmente costituisce, secondo fonti ENI, il collo di bottiglia dell’intero processo. La maggiore produzione mensile rilevata da quando la concessione è vigente è stata quella del mese di ottobre del 2005 con quasi 392 milioni di tonnellate di greggio, con un picco di 96.300 barili al giorno.
La concessione di coltivazione “Val d’Agri”, così come oggi la conosciamo, interessa una superficie di 660,15 kmq ed è il risultato di vari passaggi di quote e successive unificazioni di preesistenti concessioni. L’ultimo di questi passaggi, avvenuto con Decreto Ministeriale il 28 dicembre 2005, ha unificato le concessioni “Grumento Nova” (che nel frattempo aveva già inglobato la concessione “Caldarosa”) e parte della concessione “Volturino” ratificando, contestualmente, l’attuale assetto di titolarità che vede proprietari ENI per una quota pari al 60,77% e SHELL ITALIA E&P per il restante 39,23%. Il programma dei lavori vigente, aggiornato con decreto della Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche in data 23 gennaio 2012 previa intesa con la Regione Basilicata[20], prevede la realizzazione di ulteriori 3 pozzi esplorativi nell’ambito del programma di ricerca e 6 pozzi nell’ambito del programma di sviluppo, aggiuntivi rispetto ai 38 che risultavano già perforati al 2009. Ad oggi, la situazione aggiornata vede la presenza di 27 pozzi in produzione, quattro dei quali realizzati tra il 2011 ed il 2013, e 10 pozzi classificati come produttivi non eroganti[21]. Sebbene non riportati nell’elenco fornito dall’UNMIG, si registra anche la presenza di altri 2 pozzi perforati: Costa Molina 2, in territorio del comune di Montemurro, attivo da giugno 2006 per la reiniezione delle acque di produzione separate al centro oli, e Monte Alpi 9 Or, in territorio del comune di Grumento Nova, interventato e completato nel 2008 come reiniettore per impieghi futuri. Dunque, in totale sono 39 i pozzi già perforati nell’ambito di questa concessione su un totale di 45, mentre inizialmente erano 54 quelli previsti nell’intesa ENI – Regione Basilicata del 1998 e dai programmi ereditati a seguito dell’unificazione delle concessioni “Volturino” e “Grumento Nova”. L’attuale programma dei lavori prevede anche investimenti per circa 220 milioni di euro per la costruzione di una nuova linea di trattamento gas nel centro oli di Viggiano, la cosiddetta quinta linea, in via di completamento. L’adeguamento impiantistico è giustificato dall’esigenza di ripristinare la capacità produttiva nominale di progetto del centro oli, pari a 104.000 barili al giorno, che, secondo fonti ENI, risulta compromessa a causa di un significativo incremento del gas acido da trattare e di un inaspettato aumento dei valori di GOR (Gas Oil Ratio – rapporto tra il volume di gas associato ed il volume di olio estratto) a seguito dell’allacciamento di alcuni pozzi dell’area di Cerro Falcone.
Oltre ai pozzi, l’infrastruttura industriale si compone poi di una rete di raccolta, estesa per circa 100 km, che collega i 34 pozzi produttivi ad oggi allacciati (tutti e 27 i pozzi in produzione oltre a 7 pozzi produttivi tra i 10 non eroganti) al centro di raccolta e trattamento olio sito nella zona industriale di Viggiano (il COVA, acronimo che sta per Centro Oli Val d’Agri) dove si provvede alla separazione, alla desolforazione ed allo stoccaggio dell’olio che infine viene instradato presso la raffineria ENI di Taranto tramite un oleodotto di circa 136 km.
Il giacimento della concessione Val d’Agri è in realtà suddiviso in due unità, entrambe mineralizzate ad olio, corrispondenti alle due culminazioni strutturali denominate “Trend1” e “Trend2”. La prima delle due unità si estende per circa 300 kmq e comprende le strutture Monte Alpi, Monte Enoc, Cerro Falcone e Costa Molina, la seconda, di estensione molto più modesta, comprende le strutture Caldarosa e Tempa La Manara.
In generale non è facile reperire dati circa la reale capacità complessiva dei giacimenti per diversi ordini di motivi: da un lato si tratta di stime basate su modelli estremamente complessi, accompagnati da un certo grado di incertezza, dall’altro le compagnie usano spesso pesi diversi nella comunicazione di questi dati a seconda che essi siano destinati agli investitori o ad interlocutori istituzionali. Addirittura ci si è imbattuti in relazioni tecniche di studi di impatto ambientale redatti da ENI in cui i dati sulle riserve di greggio venivano desunti dal PIEAR (Piano di Indirizzo Energetico ed Ambientale della Regione). Nel caso della concessione “Val d’Agri”, per rimanere alle stime più basse che è stato possibile reperire tra le varie fonti bibliografiche consultate, pare che le riserve recuperabili dai due “Trend” fossero inizialmente oltre 1 miliardo di barili di olio equivalenti[22] comprendendo, quindi, anche il gas associato. La difficoltà di reperire dati sulla consistenza del giacimento, in termini di quantità effettivamente recuperabili, rende altrettanto difficile fare stime accurate sulle riserve ancora disponibili. Nel caso della concessione “Val d’Agri” i dati di produzione sono abbastanza singolari e mal si addicono ad essere incrociati con i modelli predittivi disponibili in letteratura. Lo sfruttamento del giacimento è iniziato molto lentamente, impiegando dodici anni per arrivare al picco di circa 4,4 milioni di tonnellate registrato nel 2005. Da allora la produzione si è attestata su un plateau che ha sempre oscillato tra 3,15 e 4 milioni di tonnellate, quindi su valori molto alti e per un periodo abbastanza lungo. Considerato, poi, che la produzione cumulata al 31 dicembre 2014 ammonta ad oltre 360 milioni di barili estratti e che dal 2005 il giacimento ha iniziato a produrre quantitativi importanti e crescenti di acqua di strato, è presumibile che la metà del greggio recuperabile estratto stia per essere oltrepassata e che nei prossimi 10-15 anni assisteremo al declino del giacimento, tanto più che la ripristinata capacità produttiva di 104.000 bbl/d darà un ulteriore impulso alla velocità di esaurimento.
Ai 104.000 bbl/d che saranno estratti nella concessione “Val D’Agri”, a breve si aggiungeranno i 50.000 bbl/d già autorizzati nel programma di lavori approvato per la concessione “Gorgoglione”, che interessa ben tredici comuni tra la provincia di Potenza e la provincia di Matera. Il totale di 154.000 bbl/d di olio greggio, dato dalla somma delle due capacità autorizzate, è solo un massimo teorico che, nella realtà, potrebbe effettivamente essere raggiunto solo a condizione che il campo di Tempa Rossa (concessione “Gorgoglione”) arrivi al plateau non più tardi di quando inizierà la fase di declino della concessione “Val D’Agri”. In altre parole, non è remota l’ipotesi che si possa arrivare al 2020 (orizzonte della SEN) con produzioni inferiori a quelle massime già autorizzate: o perché non si sarà ancora raggiunto il picco di produzione della concessione “Gorgoglione” o perché la concessione “Val D’Agri” comincerà ad esaurire la sua spinta. Nel caso più favorevole, per effetto del contributo di queste due concessioni, trascurando l’apporto marginale che potrebbe ancora provenire dalla concessione “Serra Pizzuta” di Pisticci, la produzione al 2020 di olio greggio in Basilicata sarà al più pari a 154.000 bbl/d, corrispondenti a circa 56,2 Mboe (milioni di barili) nell’anno. Affinchè l’Italia si avvicni agli obiettivi fissati dalla SEN, occorrerebbero circa 260.000 bbl/d, ovvero 9,5 Mboe nell’anno. Non è possibile sapere se tale previsione avrà luogo, ma sicuramente a seguito dell’approvazione del decreto “Sblocca Italia” è stato registrato un rinnovato interesse delle compagnie petrolifere sul territorio regionale della Basilicata. Non è un mistero, per esempio, che la società britannica Rockhopper abbia intenzione di perforare, entro il 2016, fermo restanti i provvedimenti autorizzativi necessari, un pozzo esplorativo nell’ambito del permesso di ricerca “Monte Grosso – Serra San Bernardo” il cui prospect, secondo quanto riportato dalla stessa società, potrebbe risultare in uno dei più grandi giacimenti onshore rimasti nell’Europa occidentale con una risorsa potenziale lorda stimata in oltre 200 milioni di barili ed una probabilità di successo geologico del 23%.[23]
Attività estrattive ed occupazione
Per quanto riguarda i livelli occupazionali, stando agli ultimi dati disponibili pubblicati da ENI nel rapporto annuale sulle attività del 2013, il Distretto Meridionale (Di.Me) che ha sede a Viggiano conta 348 occupati diretti di cui il 59% (206 unità) sono i residenti in Basilicata, con un trend segnalato in crescita rispetto sia al 2011 che al 2012 (Tabelle 3)[24].
Tabella 3 – Dipendenti diretti ENI Distretto Meridionale: 2011 – 2013 (Fonte: ENI) |
Gli occupati indiretti, invece, ovvero i lavoratori della catena di fornitura di beni e servizi ed i lavoratori dell’indotto ENI di Viggiano, sono 2.533 di cui 1.077 i residenti in Basilicata: valori sostanzialmente in linea con le rilevazioni riportate nel rapporto dell’Osservatorio Industria della CGIL Basilicata del 2013[25]. In totale, gli addetti ai lavori sono poco meno di 3.000: di cui circa 1.300 residenti in Basilicata, la maggior parte dei quali sono lavoratori delle aziende dell’indotto.
Non deve stupire se a fronte di investimenti ingentissimi, le ricadute occupazionali nell’industria estrattiva dell’ “Oil & Gas” sono tutto sommato moderate, ma non trascurabili. Non a caso il settore viene spesso utilizzato come esempio di scuola per spiegare il concetto di industria “capital intesive”, ovvero di industria in cui il costo del capitale è maggiore del costo del lavoro. Tanto per citare un altro esempio, i dati disponibili che riguardano i livelli occupazionali presenti e futuri nel realizzando centro oli di Corleto Perticara, nell’ambito delle attività della concessione “Gorgoglione”, indicano che, dopo una massiccia mobilitazione di personale per le attività legate alla realizzazione del centro oli, che avrà un picco nei prossimi mesi che supererà le 1.600 unità, gli addetti in sito saranno poco meno di 300[26] a regime, a fronte di un investimento complessivo di 1,4 miliardi di euro[27].
Tabella 4 – Stima di mobilitazione di personale per disciplina (fonte: TOTAL E&P Italia). |
Dunque, i dati che testimoniano dell’occupazionecreata, sebbene modesti in rapporto al costo dei capitali mobilitati, sono comunque importantissimi, soprattutto se letti in relazione ai contesti in cui dette attività si sonoinserite. In un recente rapporto sull’economia della Basilicata[28], la Banca d’Italia ha fornito un approfondimento sulle attività estrattive di petrolio e gas in cui è stato rilevato che, grazie allo sfruttamento del petrolio in Val d’Agri, gli addetti all’industria e ai servizi negli undici comuni in cui si concentrano le attività estrattive è aumentato del 5,8 % tra il 2001 e il 2011, a fronte di un calo dell’1,3 % nei restanti comuni della Basilicata. Di contro, ed è lo stesso rapporto di Banca d’Italia ad evidenziarlo, le dinamiche demografiche nei comuni interessati dalle estrazioni sono state peggiori che nel resto della Basilicata. Secondo dati ISTAT, infatti, nel periodo 2002-2012 la popolazione dell’area è diminuita del 6,5 %, a fronte di un calo del 3,4 % nei restanti comuni lucani, con più della metà di tale riduzione (3,8 punti) dovuta a un saldo migratorio negativo. Anche l’invecchiamento della popolazione è stato più rapido che nel resto della regione. Questo fatto dovrebbe far riflettere, in quanto evidenzia ciò che spesso è tralasciato: il costo delle scelte in termini di mancate opportunità. In altre parole, e questo vale per qualsiasi settore la cui esistenza si ponga in competizione con altri settori, ma anche con gli aspetti della vita in generale, i posti di lavoro generati sono solo una voce nella colonna degli attivi e non il saldo.
I dati fin qui riportati sulle ricadute occupazionali generate dall’industria estrattiva indicano chiaramente che la ricaduta positiva più importante per il territorio, sia in termini di unità lavorative impiegate che in termini di valore aggiunto che resta sul territorio, è costituita dalle aziende dell’indotto. Sempre dal rapporto di Banca d’Italia sull’economia della Basilicata si legge che dal 2000 al 2012 il valore aggiunto delle imprese lucane operanti nell’indotto idrocarburi è aumentato dell’1,1% medio annuo, a fronte di una stagnazione per il totale delle imprese regionali..
L’Italia, la Basilicata e le sfide per il futuro
Che “il petrolio a buon mercato” sia ormai esaurito non è più solo un concetto astratto che trova spazio nelle elucubrazioni di qualche gruppo di studiosi, ma va pian piano assumendo i connotati di una percezione concreta che inizia a riguardare da vicino la vita reale delle persone. Nel 1998, con un articolo apparso sulla rivista Scientific American dal titolo “The End of Cheap Oil” (“La Fine del Petrolio a Buon Mercato”) Colin Campbell e Jean Laherrère, perfezionando una tecnica pubblicata nel 1956 da M. King Hubbert, hanno teorizzato che il declino del petrolio “convenzionale” a livello mondiale sarebbe cominciato già prima del 2010 quando, a meno che non ci fosse stata una recessione globale, il ritmo delle produzioni non sarebbe stato più in grado di tenere il passo con la domanda. Il tempo ha dimostrato che lo studio di Campbell e Laherrère non era poi tanto sbagliato, dal momento che il prezzo del greggio ha subito un’impennata proprio tra il 2009 ed il 2011, passando da 34 a 114 dollari al barile in poco meno di due anni, attestandosi poi su livelli sempre prossimi ai 100 dollari al barile fino a quasi tutto il 2014. L’elemento di “novità” degli ultimissimi mesi è stato il brusco calo del prezzo del greggio dovuto alla sovrapproduzione mondiale determinatasi con l’ingresso sul mercato di ingenti quantitativi di petrolio “non convenzionale” (shale oil) proveniente dagli Stati Uniti e la contrazione dei consumi di molti paesi industrializzati dovuta alla crisi economica internazionale (oltre al non-intervento dei paesi OPEC che meriterebbe un approfondimento a parte). In effetti lo studio di Campbell e Laherrère non aveva escluso scenari di questo tipo, prevedendoli come una delle evenienze possibili che avrebbero potuto spostare solo un po’ più avanti nel tempo “la fine del petrolio a buon mercato”, come d’altra parte avevano anche considerato la possibilità che l’industria petrolifera potesse, ad un certo punto, intensificare gli investimenti in ricerca tecnologica per incrementare la frazione recuperabile dei giacimenti. È esattamente ciò che è avvenuto nell’epoca più recente, con investimenti nell’ “Oil & Gas”, triplicati in meno di dieci anni. Ma l’aspetto che dovrebbe preoccupare di più quei paesi che come l’Italia scontano una forte dipendenza energetica dall’estero, non è tanto la progressiva e più o meno rapida diminuzione della produzione mondiale di petrolio, quanto l’ancor più rapida diminuzione delle quantità di esso che si rendono disponibili sul mercato delle esportazioni. Infatti, nelle economie di molti paesi produttori si sta osservando che il forte impulso impresso alla crescita dovuto alla disponibilità della ricchezza prodotta dal petrolio finisce per determinare anche una crescita abbastanza rapida dei fabbisogni interni che vanno così a ridurre le quantità disponibili per le esportazioni. In altre parole, alcuni paesi produttori stanno diventando sempre più produttori-consumatori e sempre meno esportatori. Emblematico è il caso dell’Indonesia (Grafico 6), che da paese esportatore, in poco più di vent’anni è diventato un importatore di petrolio.
Grafico 6 – Produzioni ed esportazioni di petrolio in Indonesia tra il 1980 ed il 2010 (fonte: P.Brocorens)[29]. |
Questo esempio, sebbene sia solo uno dei casi più evidenti, mostra come la crescita garantita dal petrolio segua un meccanismo che non trova punti di equilibrio. E questo è un fatto intrinseco ed ineludibile: qualunque economia basata sullo sfruttamento di una risorsa esauribile è destinata ad esaurirsi con essa, a meno che quella risorsa non diventi un’occasione per costruire un’alternativa sostenibile e duratura. Se un paese come l’Italia aspira a rimanere una realtà industrializzata e sufficientemente competitiva anche in futuro, dovrebbe cominciare seriamente a fare i conti con questa realtà, atteso che la “sfida energetica” non potrà certo essere vinta prevedendo semplicemente un aumento di estrazioni che, come abbiamo visto nei numeri, rischia di essere poco più che un palliativo. Non affrontare il problema ed immaginare che una riconversione possa avvenire “spontaneamente” sotto la pressione della scarsità di petrolio, con il suo prezzo alle stelle e in un’economia in crisi che non dispone delle risorse necessarie, equivarrebbe ad una decrescita infelice.
La Basilicata, dal canto suo, potrebbe scegliere di assumersi il compito – a suo vantaggio – di mostrare la strada verso l’alternativa necessaria, smettendo i panni della “regione strategica” buona solo per attingere risorse funzionali alla conservazione di uno stato di cose destinato a finire e offrendo, invece, il proprio contributo di idee e di azioni per la costruzione di un modello di sviluppo indipendente dalle energie fossili.
[1] Intervista di Maria Teresa Meli a Matteo Renzi – Corriere della Sera – 13 luglio 2014
[2]Legge 11 novembre 2014, n.164 “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n.133”
[3]Legge 23 dicembre 2014, n.190 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)”
[4]DDL Costituzionale 31 marzo 2014
[5]Corte Costituzionale, sentenza n.239/2013
[6]idem
[7]Art.37 L.R. Basilicata n.16/2012
[8]“Memorandum di intesa Stato-Regione Basilicata”, 29 aprile 2011
[9]DM 8 marzo 2013, “Strategia Energetica Nazionale”
[10]GSE – Rapporto statistico rinnovabili 2013 – http://www.gse.it/it/Statistiche/RapportiStatistici/Pagine/default.aspx
[11] “Petrolio e Gas in Italia: un’opportunità per la crescita – Contributo al dibattito sull’energia” – RIE (Ricerche Industriali ed Energetiche) per Assomineraria (settembre 2012). http://www.assomineraria.org/news/attach/wp_assomineraria_x_web.pdf
[12] EIA – U.S. Energy Information and Administration
[13] http://www.eia.gov/countries/country-data.cfm?fips=IT#pet
[14] MISE – Direzione Generale per le Risorse Minerarie ed Energetiche – Rapporto annuale 2015: Attività dell’anno 2014
[15] Elaborazione su dati Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e la Geotermia – UNMIG :http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it
[16]idem
[17]Luca Zorloni – Il Giorno Milano-Metropoli, 6/11/2014
[18] Elaborazione su dati Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e la Geotermia – UNMIG :http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it
[19]Barrels of Crude Oil per metric Ton (statistic referred to Italy 2009-2013). Fonte: U.S. Energy Information Administration : http://www.eia.gov
[20]DGR Basilicata n.1177 del 8 agosto 2011
[21]Dati Ufficio Nazionale Minerario per gli Idrocarburi e la Geotermia – UNMIGhttp://unmig.mise.gov.it/unmig/titoli/dettaglio.asp?cod=932
[22]J. Holton – “S.Apennines success bodes well for potential off southern Italy” – Oil and Gas Journal – 1999
[23] http://www.rockhopperexploration.co.uk/rockhopper/operations/mediterranean.html
[24] ENI in Basilicata – Local Report 2013
[25] Davide Bubbico – CdLT Cigl PZ, Fiom Cgil Basilicata, Filctem Cgil PZ, Oss. Industria Cgil Bas. Coord. RSU Cgil Zona Ind. Viggiano – 3 settembre 2013
[26] Progetto “Tempa Rossa”: Riunione di informazione tra Regione Basilicata, rappresentanze sindacali, Confindustria, API e TOTAL E&P Italia – 2013
[27] Deliberazione CIPE 23 marzo 2012, n.18
[28] Banca d’Italia – Economie regionali: L’economia della Basilicata – Numero 17, giugno 2014
[29] Patrick Brocorens – “Understanding the decline of global oil exports”