Partiamo dal titolo: L’oro nero che non si estrae.

(Può dare adito a considerazioni di tipo razzistico, ma con una buona premessa che ne spieghi le circostanze l’operazione dovrebbe funzionare. Dovrebbe essere volutamente di impatto, vista la materia trattata e le implicazioni che emergono dagli articoli del rapporto, molto densi di contenuti e di numeri.)

 

L’oro nero è, nell’immaginario comune, il petrolio. In una regione che ne è ricca è facile prevedere il contenuto del testo. Ma la subordinata (che non si estrae) apre un campo di discussione molto ampio e ci introduce al nostro tema: l’immigrazione, la popolazione migrante, lo svuotamento di risorse e la conseguente estrazione di nuove. Rende anche evidente un contrasto tra le implicazioni di una scelta produttiva molto importante (il petrolio) e la generale comprensione di un territorio che da sempre ha bisogno di ripensarsi, in una continua lotta per la sopravvivenza dall’angolo visuale del Mezzogiorno interno, che necessita di essere abitato, non soltanto transitato.

In effetti è proprio in termini di risorsa, di investimento sul futuro che bisogna parlare, di sguardo lungo ai grandi cambiamenti globali, che dal Mediterraneo affacciano insidie e speranze, riflettendosi sulla nostra regione.

 

E dunque in questo senso il primo numero dei Quaderni si apre con una panoramica essenziale dei principali indicatori economici; in questo senso la Svimez supporta alcune nostre convinzioni: intanto la congiuntura non è delle più rosee o comunque sotto i valori pre-crisi. Poi alcuni dati essenziali (ad esempio il forte differenziale, rispetto a tutto il Paese ed alle regioni del Mezzogiorno, in termini di occupazione femminile) confermano un nostro modo di vedere e di vederci: la nostra è una regione vecchia, che smette di pensarsi al futuro, attestata su nuclei produttivi e fattori tradizionali, alla quale occorrerebbe un deciso ampliamento della struttura produttiva ed un rilancio di una strategia complessiva, nei servizi alle imprese, nei servizi alla persona, nel potenziamento del suo grande capitale umano.

 

Dopodiché l’obiettivo primario di questo primo numero è quello di suggerire una chiave di lettura inclinata sul lato umano delle cose. Una discussione ampia, a tutto tondo sui fenomeni di cambiamento globale. Sui grandi spostamenti che dal capitale al lavoro disegnano nuove geografie del potere, come quelle descritte nel libro di Ignazio Masulli. Le stesse comportano l’arricchimento di pochi e l’impoverimento di intere aree del pianeta, spostano in una direzione Nord-Sud grandi flussi finanziari e, di contro, dal Sud al Nord grandi flussi di persone, che in balia di mafie e trafficanti perdono la vita, come ripetutamente accade nelle acque al largo della Sicilia. E non solo.

 

E dunque, con gli articoli a seguire, l’opportunità di cogliere i processi, i fenomeni sociali soggiacenti alle nostre astratte convinzioni, alle nostre deformate paure: quelle per il diverso, quelle per lo straniero extracomunitario o comunitario. Eppure questi processi seguono un corso sotterraneo, modificano economie, luoghi e persino (molto lentamente) percezioni e comportamenti del vivere quotidiano di cittadini. L’analisi sui percorsi che questi processi seguono in Basilicata aiutano ad una comprensione migliore del mondo in cambiamento, predispongono comunità di studiosi, ricercatori sociali ed economici, politici ed istituzioni, ad un approccio meno affrettato o propagandistico. Offrono un momento di analisi e di confronto decisivi ed utili alla costruzione di una umanità accogliente.

 

Ma le problematiche sono immense, connesse al primario livello dell’essere cittadini in fuga, nel passaggio da una mobilità internazionale del lavoro (concetto prettamente liberale), ad una mobilità fuggiasca, in cerca di aiuto, lontano da guerre e conflitti laceranti. Quella dei richiedenti asilo. L’Italia è un Paese privo di un suo proprio modello di integrazione, anche solo di un’idea del possibile. La Basilicata, in linea con l’impreparazione nazionale, rischia di sperimentare una doppia via all’accoglienza (che nelle prossime settimane si preannuncia massiccia, secondo i numeri comunicati dal Presidente Pittella): una relativa ai richiedenti asilo ed in linea con le raccomandazioni emerse, nuovamente, dalla Conferenza Unificata Stato Regioni del 10 luglio 2014 e che individua nel sistema degli SPRAR una pratica dell’accoglienza da agevolare, in stretto coordinamento con le associazioni del terzo settore; l’altra, quella che si va delineando in queste ore in Basilicata, mirata ad una dimensione “allocativa” del fenomeno, ad una sistemazione in grandi centri di accoglienza straordinaria a grande concentrazione, senza un pensiero dell’accoglienza, senza un pensiero generale del fenomeno carsico sopra descritto, senza il rispetto, molte volte, dei diritti individuali previsti nelle convenzioni internazionali oltreché nell’universale concetto di dignità della persona umana.

 

Anche la popolazione straniera comunitaria va acquisendo un peso sempre maggiore nella nostra regione. Lo dicono i numeri, lo dicono le imprese ed il numero di aziende guidate da stranieri, lo dicono gli studi effettuati dai nostri preziosi collaboratori sulle persone iscritte ai Centri per l’Impiego, sulle prestazioni di sostegno al reddito erogate dall’INPS ai vari lavoratori subordinati, alle badanti, sui dati rinvenienti con la collaborazione delle categorie sindacali. La grande attenzione mostrata dalla CGIL verso il fenomeno ha permesso in questi anni (si veda il progetto pilota del “Sindacato di strada” coordinato dalla FLAI-CGIL) di agevolare e instradare al lavoro regolare centinaia di stranieri transitanti, seppur stagionalmente, sul nostro territorio. Ed ha permesso di conoscere un po’ meglio il tessuto produttivo in agricoltura.

 

Non sono mancati, in anni precedenti, casi straordinari di ospitalità diffusa sul territorio lucano, come testimoniato dall’esperienza rotondellese che ha accolto decine di rifugiati Curdi, in attuazione del Programma Nazionale di Asilo (PNA) del Ministero dell’Interno; comunità oggi integrata e inserita nella struttura sociale della cittadina jonica. Così è possibile affermare come, per linee generali, la Basilicata sia già dotata di una cultura dell’inclusione al punto che la popolazione albanese è tutt’ora prevalente in 5 Comuni del nostro territorio, con lingua e costumi originari.

 

Con questi presupposti, l’oro nero che non si estrae è destinato ad essere la linfa per i futuri innesti, l’humus per la coltura e per la cultura delle confluenze, in una terra che persiste in condizioni di marginalità montana, da Mezzogiorno interno, ma che si trova al centro di una congerie di mutazioni, di passaggi, di interessi, che ne fanno una potenziale terra dell’accoglienza. Il suo territorio è scarsamente popolato e dispone, a causa dei forti tassi di migrazione interna (nazionale), di un patrimonio edilizio in esubero, di fabbricati e fabbricati recuperati coi fondi post-terremoto; ma presenta, al contempo, centri storici sempre più desolati.

 

La Basilicata dovrà preservarsi nel futuro e non pensarsi totalmente petrolizzata se vorrà sopravvivere a sé stessa. L’oro nero che si estrae cozza spesse volte con le esigenze di ripopolamento di Comuni e campagne. C’è bisogno di una strategia complessiva che riesca a superare la dipendenza dalle royalties; c’è bisogno di disegnare una strategia economico-sociale in grado di valorizzare la diversità riservata del tessuto lucano. E di una visione che si ispiri al raddoppio della popolazione esistente più che al raddoppio del quantitativo di petrolio da estrarre. Prestando attenzione all’ambiente, ad un territorio che rischia una compromissione irreparabile ed uno sfregio emotivo insanabile a seguito di una carente fiducia verso le istituzioni preposte al controllo.

Ma pure sul punto occorre recuperare una visione dinamica della questione petrolio. Partendo innanzitutto dall’assoluta trasparenza delle operazioni di estrazione, puntando ad un controllo avanzato ed autorevole dell’ambiente, ridando credibilità agli enti preposti; promuovendo un vero canale di integrazione con i centri di ricerca e la nostra università, magari promuovendo la nascita di una facoltà di ingegneria energetica e gettando le basi per una nuova rivoluzione industriale, basata su tecnologie avanzate ed organizzata intorno alle migliori e qualificate competenze rinvenienti in loco.

 

Se col decreto Sblocca Italia si è acconsentito ad uno scivolamento in capo al MISE di attività di autorizzazione, prima attestate alla regione, oggi la Regione dovrà recuperare il terreno perso. Intanto ripristinare trasparenza e democrazia nelle decisioni attraverso un coinvolgimento delle comunità interessate da attività invasive; poi regolando e programmando la disponibilità del suo territorio, a maggior ragione in un contesto reso intricato dall’emergenza finanziaria del capoluogo e nella fortunata, di contro, circostanza di aver conquistato a Matera il titolo di Capitale europea della Cultura 2019; infine provando sin da ora a introitare le migliori innovazioni sociali; l’integrazione, l’accoglienza, la programmazione di azioni mirate ad una cambiamento delle relazioni e delle dinamiche intersoggettive: un welfare più inclusivo, la destinazione di una parte delle risorse delle royalties per il finanziamento di un reddito di cittadinanza, la riscrittura delle regole sociali e la compenetrazione tra i programmi socio-assistenziali ed una cultura della persona e delle sue esigenze di vita, oggi più che mai richiedenti una revisione.