Quanto vale l’ambiente in Basilicata?

di Valerio Tramutoli

 

Si è fatto tardi. Forse, ancora non troppo tardi. Ma senza una discussione aperta, informata, fuori da ogni pregiudizio, non possiamo nemmeno dire di aver cominciato ad affrontare il tema del rapporto tra tutela ambientale e progresso (prima ancora che sviluppo) delle condizioni di vita nella nostra Regione.

A leggere la Relazione sullo Stato dell’Ambiente della Regione Basilicata[1] colpisce il ritardo con il quale, di fronte all’avvio di processi produttivi potenzialmente dannosi per l’ambiente, la Regione abbia messo in campo la propria azione, non dico di prevenzione, ma almeno di normale monitoraggio e controllo[2].

Le recenti vicende che hanno interessato, tra gli altri hot spots ambientali, il termovalorizzatore EDS-Fenice a Melfi, le Ferriere Nord a Potenza e le aree estrattive della Val d’Agri, hanno profondamente minato la fiducia dei cittadini lucani negli organismi regionali istituzionalmente deputati ai controlli. E questo a favore di improbabili indagini fai da te (spesso commissionate direttamente da Comuni esplicitamente interessati a valutazioni indipendenti!) che acquisiscono tanta più credibilità quanto più i loro risultati sono allarmanti e/o contrastanti con i (pochi in realtà) dati ufficiali.

Al di là di eventuali responsabilità amministrative (ormai all’attenzione della magistratura) appare del tutto evidente, a partire dalla fine degli anni ’90,  un progressivo cambio dell’atteggiamento della politica regionale rispetto alle questioni ambientali: da una idea attiva del controllo ambientale che, chiedendo in ogni campo l’utilizzo delle migliori tecnologie disponibili, provava a innescare anche fattori importanti di innovazione e sviluppo, ad una idea puramente difensiva che, limitandosi ai controlli obbligatori per legge, alla fine, non è riuscita a garantire nemmeno l’accettazione sociale necessaria alla continuazione/espansione di attività industriali,come quelle estrattive che, accanto a quello ambientale, avrebbero potuto esprimere ben altro impatto sullo sviluppo economico e sociale regionale[3].

La Basilicata si trova oggi davvero ad un punto di snodo che, inopinatamente, ha al suo centro proprio le questioni ambientali e, all’interno di queste, soprattutto il tema delle estrazioni petrolifere in Regione. Questo almeno per tre fattori convergenti:

  1. la perdita di credibilità del sistema regionale di controllo ambientale (conquistata anche grazie ad anni di scelte politiche sulle nomine dirigenziali che evidentemente non attribuivano ad ARPAB e Dipartimento Ambiente alcun ruolo strategico), che rischia di diventare irreversibile senza la realizzazione di condizioni di vera autonomia (che significa anche maggiori investimenti in strumentazione e personale) nella gestione di ARPAB e di massima trasparenza[4] nell’informazione ambientale.
  2. l’evidenza delle scarse ricadute sullo sviluppo regionale delle risorse rinvenienti dalle royalties del petrolio (concretamente misurabile dal peggioramento delle condizioni di vita della popolazione, dall’aumento dell’emigrazione soprattutto di giovani laureati, dal progressivo smantellamento di importanti presidi produttivi ed amministrativi regionali) utilizzate principalmente, in assenza di un reale idea di sviluppo della Basilicata, per sostenere la spesa corrente e per iniziative di corto respiro volte essenzialmente alla raccolta/mantenimento del consenso.
  3. la preoccupazione per una possibile compromissione di attività produttive pre-esistenti e/o di più recente sviluppo (agricoltura biologica, turismo, etc.) che proprio sulla qualità dell’ambiente e sull’immagine di un territorio incontaminato fondano parte del loro successo.

Si tratta di uno snodo così importante per le sue possibili implicazioni economiche e sociali da destare nelle stesse compagnie petrolifere la preoccupazione che, il combinato disposto di un uso improprio delle royalties e la mancanza di un sistema credibile di monitoraggio, possa esporle (anche al di là di effettive loro responsabilità) alla pressione di un movimento di opposizione popolare che finisca per rallentare o impedire del tutto la continuazione delle loro attività.

D’altra parte giacché sul capitolo royalties – per i tagli del Governo agli Enti Locali e in assenza di piani adeguati di riorganizzazione della spesa regionale – sono state appostate anche le spese relative ad assetts strategici e/o irrinunciabili del sistema regionale[5] che, per la loro importanza, bene avrebbero dovuto trovare posto nel bilancio ordinario, la stessa scelta di abbandonare, o anche solo di ridurre, le estrazioni petrolifere non appare nemmeno più alla portata dell’Amministrazione Regionale. Non senza un piano drastico di ristrutturazione della spesa che certamente non aumenterebbe i consensi e che appare ben là da venire.

Eppure attorno alla tutela dell’ambiente e del patrimonio naturale (oltre che culturale) della Basilicata, attorno all’idea di una regione che può dirsi davvero incontaminata solo se accuratamente controllata,  si gioca la partita di uno sviluppo sostenibile che scommette e investe sulle migliori tecnologie via via disponibili, per ridurre al minimo possibile l’impatto ambientale di tutte le sue attività produttive e che, anzi, proprio attorno ad esse prova a costruire la sua filiera di ricerca, innovazione e produzione.

Occorre quindi ripiegarsi sulla questione con pazienza, competenza e senza pregiudizi. Nessuna discussione è possibile senza la conoscenza dei dati di fatto che devono essere pubblici ed abbondanti piuttosto che scarsi e, spesso, indecifrabili. Che le imprese dimostrino di volere investire sui migliori sistemi disponibili di riduzione dell’impatto ambientale (al di là e oltre il semplice rispetto dei limiti di legge) e che ARPAB e Dipartimento Regionale dell’Ambiente si impegnino a sviluppare e implementare capacità autonome di monitoraggio che siano all’altezza delle effettive necessità del territorio e che, in nessun modo, possano apparire condizionate nella propria operatività dai desiderata delle imprese controllate.

Che venga restituita all’Osservatorio Ambientale della Val d’Agri la sua missione originaria[6] con capacità di monitoraggio e personale propri, con l’obiettivo di farsi garante della salute dei cittadini e del rispetto degli accordi presi, puntando alla identificazione tempestiva dei possibili rischi e, ove possibile (attivando tutte le collaborazioni scientifiche necessarie) alla proposta dei possibili rimedi.

Solo dopo che questo sarà fatto, e le risorse, abbondanti[7], rinvenienti dall’accordo con ENI del 1998, attendono solo di essere utilmente spese, potremo affrontare seriamente il tema (che in una situazione di normale operatività dei sistemi di controllo avrebbe potuto cominciare molto prima) se davvero questo territorio ha da guadagnare (oppure da perdersi definitivamente) abbracciando in questo modo la via del petrolio.

Ma questa è un’altra storia.

 

[1] D. Viggiano et al.: “Relazione sullo Stato dell’Ambiente della Regione Basilicata” , Edizioni Scientifiche Italiane, 2013, pp. 320, (disponibile su http://www.regione.basilicata.it/giuntacma/files/docs/DOCUMENT_FILE_2975276.pdf)

[2] Gli unici dati di qualità dell’aria in Val d’Agri si riferiscono alla stazione di Viggiano (operativa solo dal 2006) mentre le ulteriori 4 installate nel Novembre 2012, solo dal marzo 2013 producono dati validati (D. Viggiano et al., 2013, cit., p.162)

[3] Fa impressione, per esempio, come la richiesta contenuta nel Protocollo d’intenti tra Regione Basilicata ed ENI S.p.A. approvato il 18 Novembre 1998 (DGR 3530) che: “…qualsiasi attività connessa allo sfruttamento degli idrocarburi dovrà essere attuata non già in riferimento ai massimi livelli di tollerabilità ambientali previsti dalla legge, bensì dovrà garantire la minimizzazione dell’incidenza sull’ambiente, attraverso l’opportuna utilizzazione di tutte le migliori tecnologie disponibili…” dopo 15 anni sia rimasta sostanzialmente inevasa anche grazie ad un ritardo di oltre 20 anni (dall’inizio delle attività estrattive in Val d’Agri) con il quale si è riusciti a mettere in campo una attività di monitoraggio degna di questo nome (D. Viggiano et al., 2013, cit., p.153)

[4] Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152; Articolo 3-sexies: Diritto di accesso alle informazioni ambientali e di partecipazione a scopo collaborativo: 1. In attuazione della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, e delle previsioni della Convenzione di Aarhus, ratificata dall’Italia con la legge 16 marzo 2001, n. 108, e ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell’ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale. Un rapido confronto con i siti ARPA di altre Regioni (per esempio Lombardia) da immediatamente conto di come la continuità e tempestività della diffusione dei dati ambientali possa essere preferita in termini di trasparenza e credibilità anche in presenza di dati non ancora validati.

[5] In particolare per Università e Aziende Ospedaliere che rimangono tra i più importanti attrattori regionali, ma anche per sostenere le attività di protezione del territorio ed i salari di migliaia di operai forestali.

[6] Le finalità originarie dell’Osservatorio Ambientale della Val d’Agri sono state praticamente stravolte nell’ultima legislatura riducendolo, nonostante il contributo di giovani e validi ricercatori, ad una struttura totalmente governata dal Dipartimento Ambiente e, a tutta evidenza, condizionata nella suo operatività quotidiana da ENI.

[7] Vedi scheda allegata.